5 febbraio: oggi la legge sulla cittadinanza compie trent’anni. Una strana legge grazie alla quale ci sono ragazzi arrivati nel nostro Paese trent’anni fa ancora non sono riconosciuti come italiani.
Quello che molti non sanno è che i bambini nati in Italia possono diventare italiani a 18 anni. Ma per i bambini nati all’estero, e arrivati in Italia da piccoli, non esiste nessun percorso agevolato per la cittadinanza. Molti di questi ragazzi, cresciuti in Italia, non riescono ad ottenere la cittadinanza prima dei 25/30 anni.
Ho più volte sostenuto la necessità di una riforma coraggiosa dell’attuale legge sulla cittadinanza: ritengo che, se le forze politiche riuscissero ad affrontare il tema senza posizioni ideologiche precostituite, affrontando seriamente — e, perché no, serenamente — i problemi dell’attuale normativa, si troverebbero senza fatica soluzioni ragionevoli.
È palese infatti che la legge vigente vada riformata.
Da una parte, le norme attuali riconoscono la cittadinanza a soggetti con un avo italiano emigrato all’estero anche 160 anni fa (ius sanguinis): anche se le loro famiglie vivono all’estero da generazioni.
Dall’altra parte, invece, ragazzi cresciuti in Italia, che hanno studiato nelle nostre scuole, che sono cresciuti con noi, sono considerati stranieri; e ciò, anche ben oltre il compimento dei diciotto d’anni d’età.
È la follia di una legge a due velocità: generosissima con chi è vissuto all’estero, e insensatamente severa con chi ha passato anche tutta la vita in Italia.
Serve una riforma che da un lato limiti la trasmissione della cittadinanza italiana iure sanguinis alla seconda generazione; e, dall’altra, agevoli il percorso di ottenimento della cittadinanza italiana a chi è cresciuto nel nostro Paese.
Purtroppo, invece, la discussione delle proposte di legge di riforma della cittadinanza è bloccata da due anni in commissione Affari Costituzionali.